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martedì, 2 Luglio 2024

Il mercato del lavoro agricolo 

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Il settore agricolo negli ultimi anni registra segnali di cambiamento strutturale (non più molte unità produttive con pochi ettari di superficie agricola) unito a un processo di ammodernamento, che vede la graduale crescita delle dimensioni aziendali e la riconversione delle aziende di più ridotte dimensioni. In tale contesto il lavoro agricolo continua ad avere un carattere di forte stagionalità e in larga misura temporaneo. 

Pierpaolo Pallara, primo Ricercatore – CREA Centro Politiche e Bioeconomia

Abbiamo chiesto a Pierpaolo Pallara, ricercatore del CREA Politiche e Bioeconomia, quali sono i punti di forza e le criticità principali del comparto, in un contesto ambientale segnato dai cambiamenti climatici, dall’insorgere di nuovi patogeni, dall’instabilità dei mercati internazionali e dalla conseguente fluttuazione dei costi di produzione, che incidono pesantemente sulla precarietà del mercato del lavoro agricolo. 

Il tema del lavoro in agricoltura compare nel dibattito pubblico generalmente in conseguenza di fatti di cronaca legati allo sfruttamento della manodopera, sia in termini di salario che di orari e condizioni lavorative fuori legge. Oltre queste circostanze, può illustrarci lo scenario attuale, partendo dal contesto in cui si incontrano l’offerta e la domanda di impiego?  

Preliminarmente è necessario rammentare che l’agricoltura, in Italia come in tutte le economie avanzate, assolve molteplici funzioni. La più evidente e percepita dalla collettività è la produzione di cibo. A questa si aggiungono, con differenti livelli di importanza, servizi generatori di reddito (agriturismo, masserie didattiche, fattorie sociali, cura del verde, contoterzismo, produzione di energia, ecc.) ed altri – di carattere immateriale, ma di grande rilievo – quali la gestione del territorio e la “tenuta” del tessuto socioeconomico locale

Quest’ultima funzione si realizza in misura significativa attraverso l’offerta di lavoro agricolo, soddisfatta per lo più da manodopera di prossimità. Ciò accade soprattutto, ma non solo, nelle aree a forte vocazionalità agricola, contesti ampiamente diffusi nel Paese e contraddistinti da numerose produzioni di qualità e da alti livelli di specializzazione produttiva. 

La pluralità di ruoli svolti dagli imprenditori agricoli e l’esigenza di garantire occupazione nelle economie fortemente dipendenti dal settore primario, rendono necessaria una visione sistemica del mercato del lavoro agricolo, che coniughi la sopravvivenza delle aziende con il rispetto delle regole e delle condizioni di impiego della manodopera. 

Tutto questo si inserisce in un settore produttivo dalla spiccata specificità. 

In primo luogo, la dipendenza dagli eventi climatici e da quelli a questi correlati, come le fitopatie, rendono gli esiti quantitativi e le performance economiche delle coltivazioni e degli allevamenti sempre sub iudice, con conseguente instabilità dei redditi ed elevato rischio di impresa. 

A questo si aggiungono, anche per i prodotti con i prezzi oggetto di accordo, per esempio il pomodoro da industria, incertezze sui prezzi effettivamente ritraibili dalle produzioni. Ciò anche a causa della diffusa debolezza contrattuale del sistema agricolo, rispetto alle fasi a valle (trasformazione e distribuzione) delle filiere. È da ricordare che si tratta di una delle principali criticità delle imprese agricole, percettrici di una quota modesta del valore aggiunto nei cicli di produzione che dal campo portano alla tavola. 

La fluttuazione dei costi di produzione, particolarmente evidente per i recenti eventi bellici, può impattare significativamente sui redditi degli imprenditori agricoli. 

Ma la specificità del settore è anche di carattere strutturale. 

La diffusione di colture a basso fabbisogno di manodopera, come la maggior parte dei seminativi, ad elevata meccanizzazione, la tendenza alla specializzazione produttiva sia aziendale che territoriale, con conseguenti calendari di lavorazione con picchi in corrispondenza di precise operazioni colturali, come la raccolta delle specie frutticole, determinano una forte stagionalità della richiesta di manodopera, con conseguente precarietà occupazionale. Fanno eccezione gli allevamenti e le colture protette, comparti nei quali i cicli produttivi si susseguono nel corso dell’anno. 

Si è di fronte ad elementi non facilmente modificabili, se non attraverso la pratica della differenziazione colturale, che deve tenere conto di diversi fattori, quali le caratteristiche dei suoli, la disponibilità di risorse, il valore identitario dei prodotti realizzati, come nel caso delle Denominazioni di Origine e delle Indicazioni Geografiche. 

Questo è lo scenario. Quali sono gli elementi distintivi dell’offerta di lavoro?  

A poter offrire lavoro sono potenzialmente le 1.112.504 aziende agricole italiane, così come rilevate dall’ISTAT nel Censimento dell’Agricoltura 2020, che occupano una superfice complessiva di quasi 12,5 milioni di ettari e, quindi, con una superfice media di circa 11 ettari. Quest’ultimo valore, in crescita di ben il 40% rispetto al valore registrato nel 2010, indicherebbe una crescita dimensionale potenzialmente prodromica a una maggiore competitività e potere contrattuale nei confronti degli attori delle filiere, oltre che ad un rapporto più strutturato con la manodopera. 

In realtà, le evidenze statistiche raccontano che circa l’85% delle imprese ricorre esclusivamente al lavoro del conduttore e dei suoi familiari, con un conseguente residuale 15% che si avvale di manodopera extrafamiliare. Quest’ultima, nel complesso, fornisce un terzo dei complessivi 214 milioni di giornate di lavoro utilizzate nelle aziende agricole italiane. Significativo, di contro, che siano gli imprenditori a lavorare per il 52% delle giornate totali. 

I dati appaiono coerenti con l’indicatore relativo alla dimensione economica delle aziende, misurata sulla base delle Produzioni Standard e con buona approssimazione identificabile con il fatturato. Il Censimento 2020 evidenzia che l’83,6% delle aziende ha una dimensione economica inferiore ai 50.000 € e il 73% ai 25.000 €. Sono valori evidentemente inadeguati al ricorso a manodopera esterna e, comunque, discendenti dalla pratica di colture a bassa produttività e con un contenuto fabbisogno di lavoro. 

In sintesi, si è di fronte ad una tipologia datoriale che – per una parte numericamente significativa, anche se non prevalente in termini di contributo alla produzione nonché per motivazioni strutturali – non ricorre al mercato del lavoro agricolo. 

Quale domanda di lavoro a fronte di questa offerta? 

Parlare di domanda di lavoro non è del tutto esatto. Infatti, non siamo di fronte ad una richiesta puntuale di operare in agricoltura, considerato anche le modifiche delle aspettative occupazionali, sia in termini di condizioni e di salario, tipiche di una economia fortemente concentrata sul terziario. Più opportuno ragionare in termini di caratteristiche dell’occupazione, per le quali ci si può avvalere sia dei dati ISTAT che delle informazioni di natura amministrativa rivenienti dagli archivi INPS. 

Il primo dato che emerge è il numero di lavoratori secondo i Conti Nazionali dell’ISTAT. Questi stimano in 872.100 gli occupati in agricoltura nel 2023, un processo di flessione innescatosi da tempo che fa segnare un decremento di quasi il 6% nell’ultimo quinquennio, confermando così anche gli evidenziati limiti di attrattività del lavoro agricolo. L’incidenza sul totale degli occupati in Italia sempre nel 2023 è decisamente contenuta (3,3%), così come accade nella maggior parte degli Stati della Unione europea. È interessante, inoltre, l’entità del valore aggiunto per occupato (approssimabile alla produttività del lavoro), che nel primario si attesta su poco meno di 36.000 € per unità, a fronte dei quasi 62.000 per occupato, valore medio di tutte le attività economiche del Paese. Sono, pertanto, di piena evidenza tanto le migliori performance economiche degli altri settori produttivi, quanto le difficoltà proprie dell’agricoltura nel conseguire una redditività comparabile alle altre attività. 

Di rilievo è anche la stima realizzata dall’ISTAT sul tasso di irregolarità dei rapporti di lavoro in agricoltura. Per il 2021, ultimo dato disponibile, l’Istituto valorizza questo indicatore in ben il 23,2%, con quasi 1 lavoratore su 4 fuori dall’alveo normativo. Fermo restando che queste irregolarità sono attribuibili a diversi aspetti, il valore appare comunque significativo. Ciò a fronte di un dato decisamente più contenuto (11,3%) di tutti i settori economici. 

I dati INPS, pur non allineati con quelli dell’ISTAT, anche per metodiche di rilevazione e finalità differenti, consentono un approfondimento sulla tipologia del rapporto di lavoro, precario o fisso, sulla provenienza dei lavoratori e sulla loro distribuzione per sesso. 

Dei 1.004.000 lavoratori agricoli registrati dall’INPS nel 2022 (ultimo dato elaborato), quasi l’89% sono Operai a Tempo Determinato (OTD) e quindi stagionali. Gli OTD hanno lavorato in media 98 giornate, mentre gli Operai a Tempo Indeterminato (OTI) hanno prestato la loro opera per una media di 255 giornate nell’anno. Sono valori in piena coerenza con i fabbisogni di manodopera di cui già detto, anche se si manifesta un fenomeno di diminuzione dei lavoratori precari (-3%) e un aumento di quelli fissi (+6%). Le donne sono minoritarie rappresentando un terzo sia tra gli OTD che tra gli OTI. 

I lavoratori stranieri, in continuità con un trend avviatosi da oltre un ventennio, sono una componente consolidata del lavoro agricolo italiano, costituendo quasi il 40% degli OTD ed il 25% degli OTI, anche se con una quota femminile modesta (10%) tra gli occupati fissi. 

Questa componente straniera, poi, è per lo più di provenienza extracomunitaria con tutti i limiti che questo comporta, non ultimo di carattere motivazionale. Secondo l’indagine ultraventennale che CREA Politiche Bioeconomia svolge, i lavoratori extra UE, infatti, considerano del tutto transitorio l’impiego in agricoltura, tendendo ad occuparsi in settori produttivi a maggior reddito e/o a trasferirsi in altri Paesi dell’Unione. Pertanto, non possono rappresentare un bacino certo nel quale reclutare manodopera in risposta ai fabbisogni delle imprese. 

L’incrocio tra domanda e offerta è a volte “inquinato” da illegalità. Siamo forse in carenza di elementi regolatori? 

Il rapporto tra domanda e offerta di lavoro in agricoltura è disciplinato dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) per gli operai agricoli e florovivaisti, il cui rinnovo per il periodo 2022-2025 è stato firmato il 23.05.2022. Il CCNL, che viene declinato su scala provinciale per poter essere maggiormente aderente alle peculiarità territoriali, decodifica in tre aree le competenze professionali dei lavoratori e disciplina con estrema puntualità tanto gli aspetti retributivi quanto quelli normativi, evidenziando l’insieme delle regole e dei diritti dei lavoratori. 

A titolo esemplificativo, il Contratto prevede un orario di lavoro pari a 6,5 ore/giorno, 39 ore/settimana (6 giorni lavorativi), 169 ore/mese (26 giorni lavorativi). Gli OTD non possono svolgere attività lavorativa presso la stessa impresa per più di 180 giorni lavorativi all’anno e, pertanto, l’orario di lavoro massimo annuo è pari a 1.170 ore. Allo stesso tempo, il CCNL individua il valore minimo lordo del salario (7,77 €) e identifica le circostanze e le aliquote di maggiorazione in funzione di prestazioni lavorative addizionali quali lo straordinario. 

Si tratta, nel complesso, di uno strumento regolatorio tanto chiaro quanto flessibile nel quale, in linea con le previsioni legislative, l’aliquota a carico del datore di lavoro (37,7% sul salario minimo) gode di esenzione per le aree con svantaggio, potendo in tal modo arrivare al 9,43%. Si fornisce, così, un concreto supporto alle imprese, che operano in condizioni meno favorevoli con una significativa decontribuzione. 

Oltre al CCNL, si devono ricordare due strumenti che – attraverso un approccio sanzionatorio – mirano alla prevenzione degli illeciti nel reclutamento e nella retribuzione dei lavoratori agricoli. Si tratta della Legge 199 del 2016 di contrasto al caporalato con la quale “si sanziona il datore di lavoro che utilizza, assume o impiega manodopera reclutata anche mediante l’attività di intermediazione”, compiendo in tal modo un significativo gesto di civiltà. 

A questa si aggiunge la cosiddetta Condizionalità sociale con la quale la Politica Agricola Comunitaria per il periodo 2023-2027 sancisce che l’erogazione dei pagamenti diretti agli agricoltori è vincolata al rispetto delle norme relative alle condizioni di lavoro e di impiego dei lavoratori agricoli, inclusa la salute e la sicurezza sul lavoro, come previste dai diversi Stati membri della Unione europea. Si tratta di una scelta importante che, oltre a far rientrare l’occupazione tra i temi chiave delle politiche agricole europee, ha già le sue regole attuative in Italia dal 2023. Infine, la condizionalità sociale si coniuga con la strategia nazionale di contrasto al caporalato, come prevista dal Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura. 

In definitiva, esistono e sono operativi strumenti dedicati alla piena legalizzazione del lavoro in agricoltura. 

Pierpaolo Pallara
Primo Ricercatore – CREA Centro Politiche e Bioeconomia

Politiche di sviluppo, analisi di filiera, mercato del lavoro.

#lafrase L’umiltà ci fa eterni discepoli, la consapevolezza eterni maestri


Giulio Viggiani
Giornalista pubblicista e componente dell’Ufficio Stampa CREA

Svolge attività di branding, media relations, implementazione ed aggiornamento contenuti dell’area stampa del sito CREA, pianificazione eventi, rassegna stampa press e audio-video; news e comunicati stampa su seminari, convegni, eventi, studi e attività scientifiche dell’ente

  

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