Strategico per la nostra produzione agroalimentare e per il nostro export, in termini sia di valore economico sia di qualità del prodotto, simbolo dell’eccellenza del nostro Made in Italy nel mondo, il settore vitivinicolo è da sempre considerato una coltura ad alto reddito, ma ad elevato impatto ambientale. Si serve, infatti, di input primari, risorse idriche e sostanza organica del suolo, utilizza fertilizzanti e fitofarmaci che potrebbero contaminare le acque superficiali e profonde, concorre al fenomeno dell’erosione del suolo per le eccessive lavorazioni dei terreni, produce emissioni di gas serra, consuma energia durante l’intero processo di vinificazione e ha ricadute sulla conservazione della biodiversità.
Lo scenario è veramente così cupo? Come ridurre l’impatto ambientale della filiera senza rinunciare alla qualità, alla tipicità e quantità delle produzioni? Ne parliamo con Riccardo Velasco, Direttore CREA Viticoltura ed Enologia.
In che modo la viticoltura può essere sostenibile?
La domanda è molto ampia e richiede una risposta articolata, perché il settore negli ultimi anni sta facendo e ha fatto passi da gigante, nella consapevolezza di essere uno fra i più impattanti sull’ambiente, in particolare per l’uso della chimica nella difesa dai patogeni e dagli insetti. Indubbiamente la viticoltura biologica è in grande espansione, ma non universalmente praticabile e di egual successo. Senza trascurare il fatto che deve essere regolamentata in maniera molto precisa e dettagliata: molte tecniche che nella viticoltura tradizionale sono accettate e praticate, in quella biologica sono bandite.
In tal senso, quindi, assume una valenza sempre più rilevante la gestione integrata del vigneto, che comprenda le nuove tecnologie digitali, le varietà resistenti e i prodotti alternativi ai prodotti di sintesi. Con il progetto finanziato dal Mipaaf, Agridit, la tecnologia è diventata protagonista: la sensoristica, la robotica, la strumentazione informatica, inclusi i modelli previsionali basati su conoscenze anche decennali delle condizioni pedoclimatiche di un determinato territorio, aiutano a creare una conoscenza puntuale nella gestione delle malattie e degli agenti patogeni, consentendo, quindi, di agire in maniera mirata e di ridurre di conseguenza gli interventi da fare. Basti pensare sia alla strumentazione che favorisce la distribuzione attenta e precisa nei tempi, nei modi, nelle quantità, sia ai sensori che monitorano lo stato di salute della pianta, dosando l’irrigazione e la fertilizzazione dove serve, quanto serve, quando serve (distribuzione a rateo variabile n.d.r.). Tutto ciò, come si può intuire, non solo riduce significativamente l’impatto sull’ambiente, ma implica un notevole risparmio economico dei costi dei prodotti utilizzati. Per quanto riguarda la difesa da patogeni, funghi o insetti, ricordiamo i prodotti sostitutivi alla chimica – rame e zolfo inclusi – quali l’olio di arancio o il cerevisane, un derivato dal lievito che, simulando l’attacco di un patogeno, induce preventivamente la risposta della pianta, in modo che questa sia già preparata per quando verrà effettivamente attaccata. Oppure possiamo ricordare la competizione biologica con microrganismi antagonisti e parassiti dannosi per il patogeno, ma innocui per la pianta.
I vitigni resistenti possono essere una soluzione? E perché?
La resistenza alla malattie può essere un carattere intrinseco alla pianta. La Vitis vinifera, la vite comune coltivata in Europa, non ha questo carattere, diversamente dalla vite americana e da quella asiatica, che nel corso dei secoli hanno sviluppato le resistenze alle malattie con cui queste piante hanno convissuto in America e in Asia.
I primi tentativi di incroci fra la Vitis vinifera e quelle asiatiche e americane ad inizio del ‘900 per trasferire i geni di resistenza non hanno avuto un buon esito, perché i risultati ottenuti presentavano importanti difetti qualitativi. Verso la fine del secolo scorso si sono ottenute varietà resistenti con 97%-98% di genoma di vinifera, incrociando una madre nobile (o francese o autoctona come Sangiovese, Glera o Primitivo) con viti resistenti nelle quali la percentuale di genoma della vite americane è pressochè irrisoria, ottenendo viti di qualità molto simili alla Vitis vinifera. Le varietà resistenti sono decisamente interessanti, dal punto di vista della sostenibilità, perché richiedono 2/3 trattamenti all’anno rispetto alla Vitis vinifera che ne richiede 15/20 all’anno.
Cosa sta facendo la ricerca in tal senso? In particolar modo per limitare l’uso di input chimici e il consumo di acqua?
La ricerca sta facendo molto in questa direzione: dall’implementazione delle applicazioni tecnologiche per definire nuovi protocolli gestionali alla ricerca di prodotti alternativi alla chimica, dalla creazione di nuove varietà resistenti migliori sia autoctone che internazionali fino ad arrivare alle nuove biotecnologie sostenibili.
Come salvaguardare la biodiversità in viticoltura?
Per prima cosa bisogna fare una distinzione fra la biodiversità viticola e la biodiversità in vigneto. Per quanto riguarda la biodiversità viticola, la salvaguardia passa sia attraverso il recupero dei vitigni del passato sia creando nuove varietà con gli incroci. Per biodiversità in vigneto si intende tutto ciò che circonda e coesiste con le viti: dal manto erboso nell’interfila, alle coltivazioni mirate con graminacee e leguminose che favoriscono l’inerbimento e l’arricchimento della sostanza organica col sovescio, alla microflora e alla microfauna presente nel suolo che lo rendono ricco di sostanze nutritive e fertile, alle siepi ornamentali che permettono l’attività degli insetti impollinatori. Si tratta di considerare e gestire il vigneto come un ecosistema in cui i diversi elementi si trovano in equilibrio, inserito e integrato in un contesto ambientale più ampio.
Come migliorare le performance ambientali di un’azienda vitivinicola?
Attraverso l’applicazione di tecnologie avanzate, che richiedono sì un investimento iniziale, ma sul lungo termine producono un risparmio economico, consentendo alle piante di “performare” al meglio dal punto di vista quali-quantitativo, ottenendo così vini di alta qualità. Mi riferisco ad esempio ai i Sistemi di Supporto alle Decisioni – SSD -, ai sensori, alla conoscenze meteo e del suolo, fattori questi che favoriscono la distribuzione mirata degli input, acqua e fertilizzanti. O anche alla buona areazione dell’impianto fogliare che diminuisce la proliferazione di patogeni o funghi.
Quali progetti in corso del CREA Viticoltura ed Enologia sono orientati a migliorare la sostenibilità lungo la filiera?
Negli ultimi 5-10 anni la sostenibilità ha permeato tutte le attività di ricerca implementate dal Centro. Non alludo solo ai due grandi progetti, Agridigit e Biotech, finanziati dal Mipaaf, che sicuramente hanno dato una forte spinta in quella direzione. Ma mi riferisco, per esempio, allo sviluppo del biologico nel Sud Italia – che per condizioni pedoclimatiche è favorito – o allo sviluppo di prodotti alternativi a quelli chimici. O ancora alle nuove tecnologie o alle nuove varietà ottenute con le biotecnologie sostenibili e con il miglioramento genetico classico (applicato a Glera, Sangiovese e Primitivo), ma anche alla gestione sostenibile del suolo, al rispetto delle popolazioni microbiche e all’uso di antagonisti naturali in competizione con i patogeni. Tutto questo sempre nell’ottica di ottenere uve di qualità, perché come dice un vecchio adagio “purtroppo c’è anche chi è in grado di fare un pessimo vino da una buona uva, ma per certo nessuno è in grado di fare buon vino da una cattiva uva”.
Giornalista pubblicista dalla comprovata professionalità sia come addetto stampa, con particolare riguardo ai social media (relations, strategy, event e content) e al web, sia come redattrice di articoli presso diverse redazioni di testate giornalistiche nazionali. Fotografa e scrittrice per passione.
#lafrase Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi (Marcel Proust)