Cibo significa qualità, gusto e aspetto, ma anche territorio, economia, ambiente, etica e cultura. Questo ampliamento del valore semantico della parola “cibo” porta con sé delle evidenti implicazioni politiche, che hanno l’obiettivo, attraverso la visione sistemica dei distretti del cibo, di rendere tutto il sistema alimentare più equo e sostenibile, puntando sulla qualità e rendendo il cibo così prodotto accessibile a tutte le fasce della popolazione. Scopriamo cosa sta facendo in tal senso il CREA Politiche e Bioeconomia, nell’ambito delle attività della Rete Rurale.
Come abbiamo visto nell’articolo di questo numero di CREAFuturo dedicato ai distretti del cibo (Distretti del Cibo: volano per lo sviluppo territoriale) sono diverse le forme organizzative attraverso le quali i sistemi agricoli provano a recuperare valore aggiunto lungo le filiere, a identificare nuove traiettorie di competitività, a cooperare per promuovere un cibo sano, prodotto eticamente nel rispetto degli ecosistemi, dei cicli naturali e dei diritti dei lavoratori. Si tratta di partenariati, cioè di gruppi di lavoro e progettualità, nei quali trovano spazio soggetti diversi, per lo più caratterizzati dalla presenza di un nucleo di produttori agricoli, che correttamente rappresentano quella fase delle filiere – la produzione primaria – senza la quale non si potrebbe nemmeno parlare di cibo.
La politica del cibo: locale e sostenibile
Tuttavia, negli ultimi anni, oltre alle tradizionali connotazioni intrinseche che riguardano il cibo – ovvero la qualità, il gusto, l’aspetto – in Italia si sono diffuse esperienze che, mutuando dall’inglese food system e food policy, hanno cominciato a considerare le implicazioni territoriali, sociali, economiche, ambientali, etiche e culturali che gravitano intorno ai sistemi agroalimentari.
“Cibo”, dunque non solo più come “alimento”, ma come ambito di azione delle politiche pubbliche. Questo ampliamento del valore semantico della parola “cibo” porta con sé delle evidenti implicazioni politiche, dal momento in cui scelte sempre più urgenti e partecipate richiedono di essere affrontate dai diversi livelli amministrativi, ognuno per le proprie competenze. Comuni, gruppi di Comuni, aggregazioni territoriali diverse, Regioni, coalizioni di associazioni, gruppi di pressione: sono questi e molti altri i soggetti che negli ultimi anni hanno messo in piedi – o aiutato e stimolato lo sviluppo di – politiche locali del cibo. Si tratta di iniziative che mirano a rendere i sistemi alimentari locali più sostenibili, attraverso la partecipazione di un ampio spettro di stakeholder, dai cittadini agli agricoltori, dai laboratori alimentari fino ai ristoratori, passando per l’amministrazione e le mense scolastiche.
L’accezione di “sostenibilità” in questo caso dipende dal contesto territoriale, perché, anche nella condivisione di principi comuni, ogni contesto presenta fabbisogni e condizioni differenti, e si trova necessariamente a dover scegliere fra diverse strade, a volte anche alternative fra loro. È quello che nella teoria economica si definisce trade-off, ovvero quando si deve scegliere fra due opzioni ugualmente desiderabili, ma tra loro contrastanti: in altre parole, quando una determinata scelta è incompatibile con lo sviluppo della scelta alternativa o addirittura ne comporta una contrazione. Da questo punto di vista, il cibo rappresenta una cartina al tornasole di tali dilemmi, proprio in ragione della pluralità di significati e ambiti che coinvolge.
Facciamo un esempio e mettiamoci nei panni del decisore politico di un Comune italiano di media grandezza che, volendo dare sostanza alla politica del cibo locale approvata con una delibera un anno prima, vuole cercare di definire un sistema alimentare locale più sostenibile attraverso una serie di azioni. Si troverà di fronte a dover scegliere se proibire le inserzioni pubblicitarie di cibo di scarsa qualità o venduto sottocosto: questo potrebbe da un lato migliorare le diete dei cittadini e l’”eticità” del cibo venduto in città, dall’altro potrebbe causare perdite economiche per le catene di distribuzione, che sugli scaffali espongono proprio quel tipo di cibo di cui si vuole limitare il consumo. Anche per quanto riguarda l’agricoltura, evidenti trade-off si presentano sulla scrivania del nostro decisore: emanare un bando per l’ingresso di giovani agricoltori, potenziali innovatori e creatori di nuove opportunità o prevedere misure di sostegno per gli agricoltori già attivi, che lottano con il cambiamento climatico e fanno fatica a piazzare i loro prodotti sui mercati? O ancora, sostenere a spada tratta i prodotti locali nelle mense scolastiche, con il rischio di avere instabilità di offerta, oppure affidarsi ad acquisti pubblici convenzionali, con il rischio di acquistare prodotti standardizzati, non freschi e che sono stati coltivati e trasformati a centinaia di chilometri di distanza?
Queste e molte altre sono le sfide che riguardano le politiche del cibo e tutte le iniziative che ruotano intorno alla programmazione dei sistemi alimentari. Troppo spesso si cade vittime -e noi ricercatori non ne siamo esenti – di narrazioni semplificate, nelle quali sembra quasi che basti affidarsi ad espressioni e formulazioni accattivanti per ottenere la ricetta magica. Da questo punto di vista, dobbiamo constatare – dopo anni di lavoro su queste tematiche come Rete Rurale Nazionale, ma anche attraverso la partecipazione alla Rete Italiana Politiche Locali del Cibo – che analizzare e programmare i sistemi alimentari non è cosa semplice, perché i settori, le discipline e gli attori coinvolti sono molteplici.
Ma com’è la situazione reale?
Se l’ambizione delle iniziative dei distretti del cibo e delle politiche del cibo è sicuramente virtuosa, ovvero quella di connettere i diversi ambiti che ruotano intorno al cibo e di promuovere un cibo più sano per il pianeta e per la salute delle persone, la realtà è purtroppo drammatica per quanto riguarda il deterioramento degli stili di consumo alimentare verso diete “occidentalizzate”. Nella letteratura scientifica questo processo viene chiamato westernization delle diete, ovvero il progressivo avvicinamento a modelli alimentari nord-americani e graduale abbandono della dieta mediterranea. Questi modelli alimentari sono sicuramente più leggeri per i portafogli nel breve termine, ma devastanti dal punto di vista nutrizionale, salutare e del rapporto con gli ecosistemi da cui quel cibo viene tratto. Purtroppo, i recentissimi dati del Rapporto Coop 2023 sui consumi e stili di vita degli italiani ci restituiscono dati allarmanti1. Solo per citarne qualcuno: per reagire all’inflazione di cibo e bevande, il 42% degli italiani diminuisce gli acquisti dei prodotti più sostenibili; 6,9 milioni di italiani hanno rinunciato allo standard di consumo alimentare minimo accettabile; il 7% in meno rispetto al 2022 ha uno stile alimentare “custode” della dieta mediterranea e dei prodotti locali; quasi un milione di tonnellate di frutta e verdura in meno si consumeranno quest’anno rispetto al 2021.
Una visione sistemica fra la multidisciplinarietà del cibo e gli strumenti di policy
Viene spesso posta la questione sul perché il cibo di qualità e prodotto eticamente (per l’uomo e per gli ecosistemi) costi di più al consumatore finale. Non è questo il contesto per approfondire tale discorso, anche perché le considerazioni sono numerose e complesse. È necessario però ricordare che l’obiettivo politico delle iniziative citate (distretti del cibo, politiche del cibo, etc.) non è quello di creare solamente prodotti elitari, di altissima qualità, destinati a nicchie di mercato dei consumatori più abbienti. Piuttosto, è quello di rendere tutto il sistema alimentare più equo e sostenibile, alzando l’asticella della qualità alimentare e rendendo allo stesso tempo il cibo, così prodotto, accessibile a tutte le fasce della popolazione.
Questo grande traguardo può essere raggiunto lavorando contemporaneamente a più obiettivi e, quando serve, rinunciando a un approccio ultra-specialistico, per adottare una visione sistemica. E stavolta cado anche io vittima del tranello della narrazione semplificata, perché “visione sistemica” è un’altra delle espressioni magiche oggi in voga, e vorrei quindi specificare meglio. Avere una visione sistemica, infatti, non significa essere o diventare “tuttologi”, ma piuttosto avere la capacità di mettere a disposizione le proprie competenze specialistiche, rinunciando – se questo dovesse servire a raggiungere un obiettivo comune – a difendere a tutti i costi le proprie posizioni, per avvicinarsi alle altre discipline. È questo, infatti, uno dei problemi principali quando si parla di sistemi alimentari, ovvero il rapporto fra la multidisciplinarietà del cibo e gli strumenti di policy a disposizione, ancora tarati su visioni “per silos”, ovvero settorializzate e parcellizzate.
Di fatto, nell’ambito della Rete Rurale Nazionale, già da anni si è adottato un approccio sistemico e che guarda alle implicazioni sociali, economiche ed ambientali dei sistemi alimentari: questo rappresenta un grande passo avanti perché ha condotto al coordinamento di competenze e progettualità di ampio respiro, pur mantenendo un elevato livello di specializzazione. Da questo punto di vista, il CREA possiede, da un lato, competenze altamente qualificate su tutti gli aspetti legati al cibo e alle filiere, dall’altro rappresenta un potenziale “contenitore” e promotore di iniziative coordinate che sappiano orientare i sistemi del cibo del futuro.
Tecnologo di ricerca presso il Centro Politiche e Bioeconomia. Mi occupo di politiche agroalimentari a livello europeo e nazionale, e di progettazione partecipata di politiche del cibo a scala locale.
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(Orazio)